Pubblicato il 04-01-2016 da Luca Balducci - ( 3851 letture )
Per i media ormai è la “pillola del Jihad”: prima ancora del fervore integralista, sarebbe stato il Captagon - stimolante a base d’amfetamina brevettato nel ’61 - a far perdere ogni freno inibitore ai tagliagole dello Stato islamico. E non stupisce poi molto che il principale centro di produzione e contrabbando della sostanza si trovi in realtà dall’altra parte della barricata: vale a dire a Qusayr, terra di confine siro-libanese controllata dalle milizie sciite di Hezbollah; ovvero dai più fidi alleati del regime di Basar al-Assad, i cui stessi militari pare ne facciano ormai un uso smodato. Fin dai tempi di Alessandro Magno, gran parte dei conflitti armati è stata attraversata, nutrita o finanziata dagli stupefacenti: se nelle trincee di Vittorio Veneto era la grappa a infondere coraggio alle truppe italiane, la seconda guerra mondiale fu testimone di un boom di amfetamine tra i soldati tedeschi; mentre trent’anni dopo almeno un quarto dei reduci sovietici e americani tornarono da Afghanistan e Vietnam con un serio problema di dipendenza dall’eroina. A ripercorrere quella lunga storia è ora Alessandro De Pascale, giovane reporter salernitano che al tema ha dedicato gran parte delle sue inchieste; e che due giorni fa, a Pisa, ha inaugurato una lunga serie di incontri gratuiti (“La guerra con la droga”, ciclo di workshop sugli stupefacenti nei conflitti armati), che dal prossimo gennaio lo porteranno in giro per tutto il paese.
Nel 2013 De Pascale volò in Afghanistan per un’inchiesta e si trovò di fronte a una situazione “surreale”. “In tutto il paese - racconta - c’era un enorme boom d’eroina, che veniva consumata a cielo aperto nei parchi e nelle pubbliche piazze: a Kabul e Herat c’erano folle di giovani che si bucavano perfino di fronte alle sedi ministeriali; e le istituzioni erano del tutto impreparate a fronteggiare una simile emergenza”. Così, mentre il libro nato da quel viaggio si trasformava in un piccolo best seller, De Pascale è tornato a Herat per aprire la prima - e tuttora unica - comunità di recupero del paese: un compound protetto con oltre cento posti letto, gestito da medici afghani e iraniani, “della cui formazione - spiega il reporter, con una punta d’orgoglio - si sta occupando un gruppo di operatori che si sono fatti le ossa a Scampia”. Di qui la tua comunità…
Che da sola non può certo bastare. Siamo partiti con cinquanta posti, che sono stati occupati nel giro di qualche giorno; ma nel frattempo davanti all’ingresso s’era accampata una folla di uomini che chiedevano aiuto, giorno e notte. Così, con qualche pressione sull’Ue e sul contingente Isaf, siamo riusciti a raddoppiarli. Ma quella folla resta ancora lì: segno che il paese ha bisogno di dotarsi non solo di strutture, ma di una vera politica sugli stupefacenti. Per questo hai voluto coinvolgere operatori di Scampia?
Ovviamente sì, ma non si tratta di agire con una logica da coloni della sanità. Ciò che vogliamo è stimolare uno scambio di competenze: al momento, la struttura è in mano a un gruppo di medici afghani e iraniani della ong Wadan, che in mancanza di una legislazione sui farmaci sostitutivi avevano già sperimentato con successo il trattamento della tossicodipendenza con l’idroterapia. Nel frattempo, le autorità locali ci hanno autorizzato a condurre una sperimentazione con il metadone, ma si tratta di un gruppo molto piccolo di utenti. Gli operatori del consorzio “mediterraneo sociale” per il momento monitorano e si occupano di formazione a distanza: per questo, stiamo mettendo a punto una piattaforma informatica condivisa, che ci permetta una consulenza vicendevole e continua. Per la stessa ragione, l’anno prossimo daremo il via a una serie di periodi di tirocinio tra Napoli e Herat, in modo che gli operatori possano formarsi a vicenda in tema di terapia e riduzione del danno.
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