Un solo Codice Deontologico

Pubblicato il 01-04-2015 da Luca Balducci - ( 1927 letture )

 

Un solo Codice Deontologico per tutte le professioni sanitarie. E' questa la proposta, a firma di Piero Caramello, apparsa in giornata sulla pagine di QS e che publichiamo di seguito per intero:

"....forse la strada che stiamo intraprendendo è sbagliata e lo dico da infermiere. Dal mio osservatorio stiamo perdendo il contatto con la radice culturale della scienza infermieristica che non è “curare” nel senso clinico ma “prendersi cura” nel senso assistenziale. Vede, io noto un distacco tra quella che è la realtà quotidiana e quello che invece dovrebbe essere l’infermiere: come sostiene il Prof. Cavicchi noi abbiamo la responsabilità di essere protagonisti non nella struttura sanitaria in senso lato ma in quella della comunità in senso generale. Se vogliamo, se desideriamo realmente uscire dalla crisi, come paventato dalla collega Agostinelli, dobbiamo necessariamente cambiare il paradigma culturale dell’approccio organizzativo ovvero tornare a valutare i modelli che portano necessariamente verso il benessere dell’operatore e del suo assistito.


Ovviamente la ricerca di un’organizzazione più adeguata alla sinergia infermiere-paziente ha bisogno della nascita di un pensiero creativo senza il quale non è possibile padroneggiare tutte le complessità che il rapporto porta con sè. Se analizziamo a fondo le complessità assistenziali ci accorgiamo che esse aumentano di intensità laddove il paziente si cronicizza o perde la sua autosufficienza, ecco dunque il paradosso che secondo me amplifica il senso di crisi della mia classe professionale: non accettare che la nostra “mission” è legata ad un mondo che non necessariamente guarisce. Questa dicotomia tra medico ed infermiere è fondamentale per poter coltivare ognuno il proprio orto ma lasciando labili in confini affinché le erbe dell’uno siano di protezione per quelle dell’altro. Cavicchi ha ragione quando sostiene la mutualità di una professione verso l’altra o come lui la definisce la cooperazione, rimane il fatto, a mio modesto avviso, che sebbene l’orto sia uno (il paziente), le semine della coltivazione siano diverse e per questo si abbisogna di sensibilità e tempi diversi. Rimanendo nel campo dell’agricoltura (a questo punto sarebbero facili le battute ironiche) appare quanto mai necessario mettere in pratica la tecnica della “permacultura”. La permacultura oltre ad essere un metodo che può essere utilizzato per coltivare il proprio orto (in senso semantico) è soprattutto un valore culturale che può essere preso ad esempio. Il principio è armonizzare la coltivazione in modo che le piante siano di supporto le une alle altre e si difendano autonomamente dai parassiti. Uno dei motivi per cui la permacultura non è diventato un fenomeno di massa nel mondo della coltivazione è ben spiegato da Holmgren, il quale afferma che “i motivi sono principalmente da ricercarsi nel prevalere di una cultura scientifica del riduzionismo, e quindi un approccio cauto se non ostile a metodi di natura più olistica, nel dominio di una cultura del consumismo creata da una visione puramente economica della salute e del progresso e la paura da parte delle autorità politiche globali e locali di perdere la loro influenza e potere se la popolazione seguisse pratiche volte all'autosufficienza e all'autonomia locale”.

Ora, con il dovuto rispetto nell’utilizzare paragoni forti ed audaci, potremmo definire l’attuale crisi delle professioni sanitarie (medica ed infermieristica) una resistenza al cambiamento perché continua a prevalere una visione scientifica del riduzionismo, dove nel nostro caso possiamo accostare a questa visione le competenze avanzate e l’atto medico. Probabilmente se spostassimo il nostro sguardo sul paziente, come spesso ricordato da illustri suoi commentatori, ci accorgeremo che l’orto che stiamo coltivando non solo è lo stesso ma proprio per il principio della reciproca ausiliarietà, quest’orto rischia di non dare alcun frutto oppure di essere diviso in piccole parti che non sarebbero in grado di soddisfare la fame di riconoscimento per nessuno dei contadini.

Dunque mi permetto di dissentire sulla sfida del 566 o dell’atto medico e lo faccio con tutta la mia capacità di analisi di una società in crisi, sia dal punto di vista individuale sia dal punto di vista ideologico. Non possiamo più continuare a ragionare in termini di “competenze” se prima non ridefiniamo quelle che sono le nostre identità. Non solo, una volta ritrovata l’identità dovremmo dirci una volta per tutte perché stiamo insieme e costruire insieme un nuovo mondo di regole.
Se è vero che il lavoro di equipe prevede un scambio ed una sinergia di conoscenze, spesso di patrimonio di una singola professione e spesso trasversali a tutte, mi pare il momento di porre, nell’ottica della creatività organizzativa, una provocazione del tutto nuova: proviamo a costruire un codice deontologico che raccolga tutte le professioni che operano.
Questo non significherebbe dismettere le proprie caratteristiche ed andare verso una famiglia allargata ma semplicemente avere la maturità di poter darci nuove regole del gioco senza snaturare le proprie. Quando due persone si sposano e formano una nuova famiglia, essa oltre ad essere composta da i due coniugi, porta con se le culture di entrambi, figlie di altre famiglie.

Credo che esista una nuova sfida che vorrei chiamare “alfabetizzazione emotiva” che porta con se le resistenze e le paure di perdita di identità, questa sfida va raccolta se vogliamo continuare a credere di poter aiutare a conservare la fiducia dei cittadini nei confronti dei professionisti sanitari.

Piero Caramello
Responsabile Attività Infermieristiche"

 

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